Mafia: operazione nell’Agrigentino, 29 fermi [VIDEO]

Agrigento – I carabinieri del reparto Operativo di Agrigento hanno eseguito 29, dei 30, fermi disposti dalla Dda di Palermo a carico di agrigentini e nisseni accusati di associazione per delinquere finalizzata al traffico illecito di droga, detenzione ai fini di spaccio; tentata estorsione e associazione mafiosa.

Contestati anche diversi danneggiamenti, ma anche il favoreggiamento personale.
I provvedimenti sono stati notificati ad Agrigento, Porto Empedocle, Favara e Canicattì, ma anche a Gela.

Fra i fermati anche nominativi di un certo peso per l’Agrigentino, come l’empedoclino Fabrizio Messina, fratello del boss Gerlandino, e Pietro Capraro della famiglia mafiosa di Agrigento-Villaseta.

Fra i villasetanici anche: Guido e Nicolò Vasile, padre e figlio coinvolti in passato in altre vicende, fra cui un’indagine su mafia ed estorsione, oltre al favarese Michele Bongiorno, che ha già scontato una condanna per un omicidio commesso a soli 19 anni. Anche Gaetano Licata, già arrestato e condannato nell’indagine Nuova cupola, è un altro nome che torna alla ribalta. Altri fermati di questa notte, fra cui Samuel Pio Donzì e il 37enne Giuseppe Sottile, sono stati coinvolti in numerose vicende di criminalità spicciola.

Ecco l’elenco dei destinatari del provvedimento in corso di esecuzione: Domenico Blando, 67 anni, di Favara; Michele Bongiorno, 34 anni, di Favara; Pietro Capraro, 39 anni, di Agrigento; Ignazio Carapezza, 33 anni, di Agrigento; Carmelo Corbo, 46 anni, di Canicattì; Samuel Pio Donzì, 25 anni, di Agrigento; Carmelo Fallea, 49 anni, di Favara; Cosimo Ferro, 35 anni, di Castelvetrano; Francesco Firenze, 39 anni, di Castelvetrano; Giuseppe Focarino, 59 anni, di Palermo; Christian Gastoni, 31 anni, di Agrigento; Angelo Graci, 60 anni, di Castrofilippo; Rocco Grillo, 32 anni, di Gela; Alfonso Lauricella, 58 anni, di Agrigento; Gaetano Licata, 41 anni, di Villaseta; Fabrizio Messina Denaro, 57 anni, di Castelvetrano; Fabrizio Messina, 49 anni, di Porto Empedocle; Gabriele Minio, 36 anni, di Agrigento; Giorgio Orsolino, 34 anni, di Agrigento; Roberto Parla, 46 anni, di Canicattì; Vincenzo Parla, 53 anni, di Canicattì; Giuseppe Pasqualino, 33 anni, di Gela; Calogero Prinzivalli, 41 anni, di Agrigento; Mirko Salvatore Rapisarda, 42 anni, di Gela; Emanuele Ricottone, 58 anni, di Marianopoli (Caltanissetta); Giuseppe Sottile, 37 anni, di Agrigento; Alfonso Tarallo, 44 anni, nato a Genk (Belgio); Angelo Tarallo, 44 anni, nato a Liegi (Belgio); Guido Vasile, 65 anni, di Agrigento e Nicolò Vasile, 43 anni, di Agrigento.

Custonaci. Condannato per violenza sessuale, in Appello arriva l’assoluzione

Custonaci – Si chiude con una assoluzione “perchè il fatto non sussiste” la vicenda che ha visto come protagonista un uomo di Custonaci, accusato di “violenza sessuale aggravata in danno di una minorenne”. Lo scorso 2 dicembre la III sezione penale della Corte di Appello di Palermo, presidente Dario Gallo, ha assolto A.M. di Custonaci. Precedentemente l’imputato era stato condannato a tre anni e due mesi di reclusione dal Tribunale di Trapani in composizione collegiale, presidente Enzo Agate, con sentenza del 8 novembre 2021. “Nel merito l’unica prova fornita dalla Pubblica Accusa, che all’esito delle indagini preliminari aveva addirittura chiesto l’archiviazione del procedimento ed all’esito del giudizio dibattimentale aveva persino chiesto l’assoluzione dell’imputato – sottolinea ora l’avvocato Fabio Sammartano, legale dell’uomo – sarebbe stata la dichiarazione della piccola Persona Offesa.

Tuttavia il Tribunale, nel giudizio di primo grado, non aveva ritenuto attendibile la versione fornita dall’imputato nonostante si fosse sottoposto ad uno scrupoloso interrogatorio”. La minore, che fu presa in carico dall’unità di neuropsichiatria infantile dell’Asp di Trapani e monitorata dal Tribunale per i Minori di Palermo, era un’amica delle due figlie dell’imputato. All’epoca dei fatti la notizia ebbe grande eco mediatico vista la gravità dell’accusa. Infatti il 12 gennaio 2020 il Gup, Caterina Brignone, aveva disposto l’imputazione coatta dell’indagato. Quest’ultimo, difeso dall’avvocato Fabio Sammartano, si è sempre dichiarato estraneo ad ogni contestazione e vittima di un “racconto fantasioso” della piccola presunta vittima. Dal canto suo la Procura della Repubblica di Trapani aveva chiesto l’archiviazione del procedimento penale anche a seguito di un incidente probatorio volto all’assunzione della testimonianza della minore e ad una perizia psicologica effettuata sulla presunta vittima. L’assoluzione non ripaga certamente degli anni trascorsi con questa “infamia”, ma certamente ridà un pò di serenità all’imputato, che ne frattempo ha subito anche il divorzio dalla moglie e l’allontanamento da tutta la famiglia.

“Non c’è stato alcun arricchimento, le mani del vescovo sono pulite”

Trapani – Quasi tre ore di arringa e altrettante ancora pare ne serviranno all’avvocato Mario Caputo per giungere a quella che appare una richiesta scontata, già dal tenore di questa prima parte di intervento davanti al Tribunale di Trapani, presidente giudice Franco Messina a latere i giudici Nodari e Badalucco. Una richiesta di assoluzione per non aver commesso il fatto, si presume sarà questa quella che formulerà l’avvocato Caputo a totale difesa del suo eccellente assistito, il vescovo emerito della Diocesi di Trapani, mons. Francesco Miccichè. Nel 2012 fu rimosso da Papa Benedetto XVI dalla guida della Curia di Trapani dopo il risultato dell’ispezione disposta dal Vaticano sui conti della Diocesi trapanese, condotta dal visitatore apostolico apposta nominato, l’allora vescovo di Mazara del Vallo mons. Domenico Mogavero.

Nel processo in corso mons. Miccichè si trova imputato di peculato, per avere distratto i fondi destinati alla Curia attraverso l’8 per mille. Fatti distinti, ma il comune denominatore appare essere l’estrema libertà con la quale l’allora vescovo di Trapani avrebbe fatto uso dei soldi finiti nelle casse della Curia. Una indagine penale scaturita da una inchiesta condotta per mesi e mesi dalla sezione di pg della Guardia di Finanza. La Procura all’esito del processo, durato 4 anni, 25 udienze, circa 50 i testimoni sentiti, ha chiesto per mons. Miccichè una condanna a quattro anni e sei mesi. La difesa con l’avvocato Mario Caputo, si è da subito mossa con il determinato intento di smontare le ipotesi di accusa, dicendo a chiare lettere che potevano essere ricercate le prove circa l’insussistenza dell’accusa, “ma questo non è stato fatto”. Anzi, l’avvocato Caputo, ha aggiunto che a suo vedere, rileggendo le pagine e pagine degli atti di indagine e quelli processuali, quanto detto dai testimoni e dai consulenti, “mons. Miccichè si trova imputato per non aver fornito le giustificazioni a movimenti bancari la cui illiceità la Procura avrebbe dovuto dimostrare, ma si è limitata solo ad annotare una serie di cifre in uscita”. Per l’avvocato Caputo “sarebbe stato accedere al computer usato dall’economo della Diocesi per trovare i riscontri, nessun soldo ha avuto destinazione diversa da quella sancita, opere di carità , assistenza al clero”.

Non è mancata anche il riferimento alle cronache giornalistiche, “mons. Miccichè vittima di una campagna mediatica”. “Cominciò un giornale di Alcamo scrivendo che il vescovo si era appropriato di 1 milione di euro dopo che due fondazioni erano state fuse in una sola (Auxilium e Campanile), accusa però risultata infondata, per poi continuare con racconti circa episodi di furto, appropriazione indebita, ricettazione, anche accuse di pedo pornografia, tutte vicende finite in archivio, è rimasto solo questo processo” ha sottolineato l’avvocato Caputo. “Ma questo processo non doveva essere nemmeno celebrato”.

La storia è nota, ma va riepilogata. Tra il 2009 e il 2012 circa 400 mila euro provenienti dalla Caritas, tratti dall’8 per mille, sono finiti dai conti correnti dedicati a quello della Curia e da qui attraverso prelevamenti, “mai direttamente fatti dal vescovo Miccichè”, secondo l’accusa anche sul conto anche personale dell’imputato. Denari dei quali sarebbero stati beneficiari anche i suoi familiari (in aula ieri erano presenti la sorella e il cognato Teodoro Canepa) per acquisto e ristrutturazione di immobili di pregio a Palermo e Monreale. “I rendiconti presentati alla Cei (Conferenza Episcopale Italiana) sull’utilizzo dei fondi dell’8 per mille – ha sottolineato l’avvocato difensore di Miccichè – sono stati sempre tutti approvati, di sbagliato c’è solo l’aver riversato il denaro nel conto corrente della Curia, ma qui i testi ci hanno detto che ciò ha sempre rappresentato una prassi, niente dolo dunque”.

Diverso l’avviso della Procura. Quei soldi trasferiti dai conti dedicati a quello della Curia, una volta impiegati non finivano nel rendiconto ufficiale da inviare alla Cei. Soldi mal spesi? “Ma quando mai, sono sotto gli occhi di tutti gli interventi realizzati, dalla biblioteca diocesana, al monastero delle Clarisse, dalla Chiesa Regina Pacis agli aiuti per il Terzo Mondo, anche per gli aiuti alle popolazioni di Haiti dopo un devastante terremoto”. C’è la parte dei una certa somma finita a favore dei familiari, “basta cercare le prove e trovare la restituzione di somme in contanti da parte del vescovo al cassiere della Curia”. Nella memoria dell’accusa si descrivono però atti e comportamenti di altro tenore, si indica il possesso di un portafoglio titoli, tenore di vita sfarzoso, proprietà immobiliari. Come documentato dall’azione di indagine della Guardia di Finanza. Ma per la difesa si tratta di “affermazioni improprie”.

Si è citato il teste Occhipinti, ex autista personale del vescovo, “che ha fatto cenno come spesso una panino era sufficiente per il pasto durante i loro spostamenti”, ha poi definito normale che il vescovo Miccichè “possa aver investito le proprie liquidità, tratte dallo stipendio da vescovo, nei titoli”. Il difensore ha anche parlato di una cifra ingente , 193 mila euro, percepita tra il 2007 e il 2012 per l’esercizio della propria attività ecclesiale, cerimonie di vario genere, che puntualmente destinava al Seminario vescovile: “se era uno avvezzo al denaro – ha sottolineato l’avv. Caputo – avrebbe avuto ottima occasione per tenere per se quel denaro che era frutto di offerte”. Per il difensore di mons. Miccichè le testimonianze che la Procura ha indicato essere fonte di prova, quella dell’ex direttore della Caritas, Sergio Librizzi (sospeso dalla tonaca dopo essere finito condannato per gravi reati di violenza sessuale), e dell’ex direttore amministrativo della Diocesi, mons. Ninni Treppiedi, non sarebbero così decisive per poter accusare l’ex vescovo Miccichè.

L’arringa proseguirà la prossima settimana, poi, dopo la replica del pm, ci sarà la sentenza. “Mi auguro – ha detto l’avvocato Caputo – che alla fine potranno essere coincidenti la verità processuale e quella reale, a favore del mio assistito”.

Morto Matteo Messina Denaro il sistema mafioso non si è per nulla indebolito

Mazara del Vallo – Emergono nomi nuovi e vecchie conoscenze della criminalità organizzata tra le carte del blitz antimafia condotto dalle fiamme gialle di Palermo e coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia (DDA). Tra Marsala e Mazara però il sistema rimane quello di una mafia quasi tradizionale e rurale, il controllo delle campagne e delle aste giudiziarie truccate. Le indagini hanno smantellato il sistema di controllo economico e criminale messo in atto dai solidali appartenenti al mandamento mafioso di Mazara del Vallo. Morto Matteo Messina Denaro, dunque, questa ha continuato in maniera sommersa a fare affari ha continuato ad imporsi. A cominciare dal controllo del territorio, un controllo capillare, sfruttando metodi coercitivi per dominare settori strategici. Poi l’altro aspetto è il dominio sulle aste fallimentari, un aspetto che già in passato e in altre indagini sempre legate allo stesso mandamento e più specificatamente nella cosca di Marsala era venuto fuori. Gli indagati, tra cui Domenico Centonze e Michele Marino, avrebbero manipolato la vendita di beni immobili impedendo una competizione trasparente e favorendo così l’acquisizione dei beni da parte della mafia. Al centro del caso, la vendita giudiziaria del bene immobile appartenente alla società Orto Verde di Giuseppe Alberto Argano s.a.s., situato tra Mazara del Vallo e Petrosino.

Il controllo sulle aree di pascolo, con episodi documentati di violenza contro chi non rispettava gli accordi imposti dalla mafia. Gli affiliati utilizzavano minacce per costringere allevatori e imprenditori a cedere beni o denaro, rafforzando così il controllo economico sul territorio. Ma anche l’intervento su piccole e grandi controversie. E’ questa la mafia delle famiglie di Mazara e Marsala che viene fuori e che ieri ha portato a 18 misure cautelari: 7 arresti in carcere, 10 domiciliari e 1 obbligo di dimora.

Elementi chiave del mandamento mafioso i cugini Domenico e Pietro Centonze. I due hanno un ruolo diretto nella gestione delle risorse agricole nella contrada Grinesti. Attraverso minacce e intimidazioni, i Centonze avrebbero costretto allevatori a cedere i terreni, consolidando il controllo mafioso nella zona. Le intercettazioni rivelano piani per intimidire allevatori e imporre il dominio sulle aree rurali, rafforzando così le accuse contro di loro. I due Centonze però vantano anche significativi precedenti penali legati a reati mafiosi e violenze nel territorio. Ancora le intercettazioni mostrano i Centonze pianificare l’allontanamento forzato degli allevatori, imponendo pagamenti o abbandoni dei terreni. Un allevatore ha raccontato di minacce di violenza fisica e danni economici qualora non avesse accettato le loro condizioni. I cugini Centonze erano soliti detenere armi da fuoco per consolidare il loro potere. Le intercettazioni rivelano piani per intimidire allevatori e discutere la gestione delle aree di pascolo, rafforzando le accuse a loro carico. Figura chiave in questa inchiesta è soprattutto Domenico Centonze. Gli investigatori dicono che fosse il braccio destro del capo mandamento attualmente detenuto Dario Messina. Ma Domenico Centonze è anche cugino del capomafia ergastolano Natale Bonafede. Nel 2021 fu assolto, per «non aver commesso il fatto», dalla Corte d’assise d’appello di Palermo dall’accusa di avere ucciso due tunisini Rafik El Mabrouk e Alì Essid, di 31 e 34 anni, con due colpi di fucile, la notte del 3 giugno 2015, in contrada Samperi, tra Marsala e Mazara. In primo grado, l’allevatore era stato condannato dal gup di Marsala a 20 anni di carcere insieme al cugino Pietro Centonze, di 55 anni in passato condannato per favoreggiamento alla mafia, che dal duplice delitto è stato assolto nel processo d’appello. Il duplice omicidio rimane, ancora, senza colpevoli.

Nome storico quello di Pietro Burzotta, figura chiave nel mandamento di Mazara del Vallo. Genero del defunto boss Vito Gondola, Burzotta ha assunto un ruolo di primo piano nella gestione delle aree di pascolo. Fa parte di una famiglia profondamente radicata in Cosa Nostra. E’ fratello di Diego Santino Burzotta, noto killer mafioso condannato all’ergastolo per molteplici omicidi, e di Luca Burzotta, definitivamente condannato per associazione mafiosa. Pietro coinvolto in un processo per associazione mafiosa, era stato assolto a causa di testimonianze contraddittorie tra i collaboratori di giustizia. Nonostante ciò, le indagini più recenti lo descrivono come figura attiva e influente nel mandamento mazarese. Dopo la morte del suocero, Vito Gondola detto “Coffa”, nel 2017, Burzotta con Paolo Apollo, Ignazio Di Vita e Aurelio Anzelmo, ha preso in mano la gestione delle terre di pascolo nella zona di Mazara. Utilizzando il sistema mafioso del suocero che si basa su un rigido controllo delle aree rurali, con intimidazioni e minacce volte a escludere proprietari legittimi e a favorire affiliati e complici. Nelle intercettazioni viene descritto come uno dei principali organizzatori del sistema di assegnazione delle terre, imponendo il dominio del mandamento e risolvendo controversie al di fuori delle istituzioni, attraverso minacce e violenze.

Poi emerge anche la figura dell’imprenditore Luigi Prenci. Accusato di concorso esterno in associazione mafiosa Prenci avrebbe garantito protezione mafiosa per le sue attività imprenditoriali, offrendo in cambio sostegni finanziari e favori economici agli affiliati. Uno degli aspetti più inquietanti emersi dall’indagine è il ricorso sistematico di Prenci alla “giustizia” mafiosa per risolvere problemi imprenditoriali. I sodali di Cosa Nostra avrebbero garantito una forma di arbitrato criminale, sostituendosi alle autorità e legittimando la loro presenza sul territorio. Questo sistema avrebbe permesso a Prenci di consolidare i propri affari in un contesto di totale omertà e intimidazione.

Verso il 21 marzo. Ricordato oggi Giuseppe Montalto, agente di polizia penitenziaria

Trapani – Si è tenuto oggi a Trapani organizzato dall’Istituto Comprensivo a indirizzo Musicale ‟Giuseppe Montalto” l’incontro in memoria di Giuseppe Montalto, agente di polizia penitenziaria, vittima di mafia e Medaglia d’Oro al Valor Civile.

Presente il Prefetto Daniela Lupo.L’evento si inserisce nel programma delle iniziative “I 100 passi verso il 21 Marzo” promosse dalla Prefettura d’intesa con l’associazione “Libera, Associazioni, nomi e numeri CONTRO LE MAFIE”, per sensibilizzare la comunità scolastica e la cittadinanza sull’importanza della memoria e dell’impegno nella lotta contro le mafie, in vista dell’evento che si svolgerà il 21 marzo prossimo nella città di Trapani.

La manifestazione, cui erano presenti anche la vedova di Giuseppe Montalto, il Dirigente Scolastico Salvatore Vultaggio e i docenti dell’Istituto comprensivo a indirizzo musicale ‟Giuseppe Montalto”, il sindaco di Misiliscemi Antonino Tallarita, la referente per la scuola del presidio Giangiacomo Ciaccio Montalto di Libera a Trapani Susanna Scaduto e il vice presidente della consulta giovanile, ha costituito per gli alunni, uno spunto di riflessione sul sacrificio di chi ha dato la vita per difendere i valori della giustizia e della legalità.

Omicidio Titone, ergastolo a Parrinello, 17 anni e mezzo a Scandaliato

Trapani – La Corte d’Assise di Trapani ha emesso la sentenza di condanna nei confronti dei due imputati dell’omicidio di Antonino Titone di Marsala il 60enne marsalese ucciso il 26 settembre 2022 nella sua abitazione di via Nicolò Fabrizi a Marsala.

Giovanni Parrinello è stato condannato all’ergastolo, con l’aggiunta di sei mesi di isolamento diurno, mentre per Lara Scandaliato è arrivata una condanna a 17 anni e sei mesi di carcere. La Corte ha escluso l’aggravante della premeditazione per la donna, riconoscendo invece il concorso nel delitto e attenuanti generiche prevalenti.

I carabinieri poche ore dopo il delitto, erano riusciti a identificare e arrestare Giovanni Parrinello, grazie a una breve descrizione fornita dalla polizia, che aveva chiesto la collaborazione dell’Arma.

L’avvocato Vito Cimiotta, legale di parte civile, ha espresso soddisfazione per l’esito del processo: «Esprimo soddisfazione in merito all’andamento del processo e alle pene inflitte dalla Corte d’Assise. In ogni caso, attendiamo di leggere le motivazioni della sentenza per poter apprezzare i passaggi salienti di questa decisione».

La sentenza, pur chiudendo il primo capitolo giudiziario, lascia aperta la possibilità di appello. Ora si attende il deposito delle motivazioni per comprendere nel dettaglio le valutazioni della Corte che hanno portato all’esclusione di alcune aggravanti e alla determinazione delle pene.

Estorceva denaro alla madre con la violenza, giovane 24enne finisce ai domiciliari

Trapani – In manette un 24enne trapanese presunto autore di una serie di estorsioni e rapine ai danni della madre iniziate nel 2018. L’arresto è stato effettuato dagli agenti della polizia del capoluogo.

Il ragazzo è stato sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari, con braccialetto elettronico, disposta dal Gip di Trapani, su richiesta della Procura, per le continue richieste di denaro rivolte ai prossimi congiunti e, in particolare alla madre, accompagnate da violenze,
atti vessatori e minacce.

Stando alle dichiarazioni delle vittime, ogni giorno, l’arrestato si faceva consegnare dai familiari somme dai 35 ai 50 euro, anche sotto forma di ricariche postepay; se il genitore si rifiutava, il 24enne andava in escandescenze e distruggeva tutto quello che gli capitava a tiro. Quando non riceveva il denaro richiesto, il giovane minacciava di rivolgersi alla nonna convivente; per non turbare la serenità dell’anziana donna, la madre era pertanto costretta a soddisfare le richieste del figlio.

In breve tempo, le continue pretese di soldi avrebbero impoverito il nucleo familiare, costretto a rinunciare anche ad alcuni accertamenti medici, per l’impossibilità di far fronte alle relative spese.
I familiari, stanchi delle violenze e delle continue richieste, hanno infine deciso di sporgere denuncia in Questura. Gli investigatori della Squadra mobile di Trapani, attraverso le dichiarazioni delle vittime, hanno ricostruito anni di violenze e soprusi, a partire dal 2018 e senza soluzione di continuità, correlate a minacce di morte e danneggiamento di oggetti e arredi della casa.

Mazara. I nomi degli indagati nel blitz della guardia di finanza

Mazara del Vallo – Ecco i nomi degli indagati coinvolti nel blitz tra Mazara e Marsala di stamani effettuato dalle fiamme gialle del comando di Palermo.

il gip Fabio Pilato ha disposto il carcere per Aurelio Anzelmo, 39 anni, di Mazara del Vallo, Pietro Burzotta, 65 anni, di Mazara del Vallo, Domenico Centonze, 49 anni di Mazara del Vallo, Pietro Centonze, 55 anni, di Marsala, Ignazio Di Vita, di 52 anni, di Mazara del Vallo, Alessandro Messina, 42 anni di Mazara del Vallo e Luigi Prenci di 54 anni, di Mazara del Vallo.

Ai domiciliari sono finiti Giancarlo Nicolò Angileri, 60 anni di Trapani, Paolo Apollo, 74 anni di Mazara del Vallo, Antonino Giovanni Bilello, 61 anni di Marsala, Vito Ferrantello, di 42 anni di Mazara del Vallo, Michele Marino di 64 anni di Marsala, Giovanni Piccione, 57 anni di Marsala, Giuseppe Prenci di 27 anni, di Mazara del Vallo, Massimo Antonio Sfraga, 46 anni, di Mazara del Vallo e Gaspare Tumbarello di 48 anni di Marsala.

Obbligo di dimora presso il comune di residenza Lorenzo Buscaino, 63 anni di Mazara del Vallo.

La mafia a Mazara del Vallo, la Finanza esegue 18 misure cautelari [VIDEO]

Mazara del Vallo – Il cuore degli affari mafiosi a Mazara del Vallo nelle mani di un allevatore, Domenico Centonze. Ma non solo. Il blitz scattato nelle prime ore di oggi e condotto dalla Guardia di Finanza ha permesso di scoprire ancora una volta come la mafia trapanese mantiene il suolo ruolo imprenditoriale e in particolare nel settore dei centri commerciali, attraverso l’imprenditore Luigi Prenci. Nelle prime ore di questa mattina, i finanzieri del Comando Provinciale Palermo hanno dato esecuzione a un’ordinanza applicativa di misure cautelari personali emessa dal G.I.P. del Tribunale di Palermo, su richiesta della locale Procura della Repubblica – D.D.A., nei confronti di 18 soggetti, di cui 7 in carcere, 10 ai domiciliari e un destinatario dell’obbligo di dimora nel comune di residenza.

Contestualmente, sono in corso di svolgimento perquisizioni presso le abitazioni e gli altri luoghi nella disponibilità degli indagati, nei cui confronti si procede, a vario titolo, per i reati di associazione per delinquere di stampo mafioso, porto abusivo d’armi, turbata libertà degli incanti, estorsione, rapina e favoreggiamento personale.
Le indagini, condotte dal Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria di Palermo, hanno permesso di far luce sulle trame illecite poste in essere dalla famiglia mafiosa di Mazara del Vallo, disvelando i rapporti verticistici esistenti tra gli affiliati. Le indagini sono state concentrate su Domenico Centonze, diventato l’’uomo forte del mandamento. Sarebbe diventato lui, allevatore di mestiere, il braccio operativo del capo mandamento Dario Messina, attualmente detenuto. In carcere finisce anche il fratello del boss, Alessandro Messina. Centonze si sarebbe occupato di riscuotere crediti, dirimere controversie, gestire le aree di pascolo, gestire l’aggiudicazione di alcuni terreni all’asta, risolvendo in maniera minacciosa e violenta alcuni contrasti insorti, organizzare un traffico di stupefacenti tra Palermo e Mazara del Vallo. Per la Procura di Palermo sarebbe stato nelle sue mani la gestione delle attività criminali della Cosa nostra diventata impresa, secondo i dettami del defunto capo assoluto Matteo Messina Denaro. Tra gli arrestati anche Pietro Burzotta e Paolo Apollo, legati alla cosca mazarese.

Parallelamente, è stato possibile ricostruire le dinamiche criminali che hanno favorito lo sviluppo, in territorio trapanese, di una capillare rete di supermercati riconducibile a un noto imprenditore mazarese: Luigi Prenci, indagato per concorso esterno in associazione mafiosa, dal 2020 ha aperto una serie di supermercati e per questo avrebbe potuto contare sull’appoggio della mafia, diversificando gli affari. È diventato armatore e i suoi pescherecci si sono specializzati nella pesca del gambero rosso. In cambio del sostegno mafioso Prenci avrebbe assicurato a Cosa Nostra posti di lavoro, aiuti finanziari per l’avvio di nuove attività economiche, l’acquisto di beni all’asta che in questa maniera tornavano nella disponibilità di persone contigue all’associazione mafiosa. I reati contestati sono associazione per delinquere di stampo mafioso, porto abusivo d’armi, turbata libertà degli incanti, estorsione, rapina e favoreggiamento personale.

L’odierna attività di servizio, che ha previsto l’impiego di oltre 150 fiamme gialle, testimonia la costante attenzione e il perdurante impegno della Guardia di Finanza, nell’ambito delle indagini delegate dalla Direzione Distrettuale Antimafia, al fine di contrastare ogni possibile tentativo di infiltrazione mafiosa nel tessuto economico-produttivo, nell’ottica di garantire al mercato le necessarie condizioni di legalità e competitività.

Maresciallo dei carabinieri accusato di aver occultato 85 denunce, assolto dal Tribunale

San Vito Lo Capo – “Assolto per non avere commesso il fatto”. Con questa formula si chiude così dopo 6 anni il calvario che ha visto come imputato l’ex comandante della stazione dei carabinieri di San Vito Lo Capo il maresciallo Salvatore Doria, accusato di non avere trasmesso ben 85 denunce in procura. Venerdì il tribunale monocratico del capoluogo, giudice Roberta Nodari, ha emesso la sentenza di assoluzione nei confronti del sottufficiale dell’Arma, che a seguito della vicenda, era stato trasferito a Palermo in altra sede. Entro 90 giorni le motivazioni.

Tutto inizia nell’estate del 2019, Doria viene rinviato a giudizio dal gip di Trapani, su richiesta della Procura, Pm Andrea Tarondo, perchè in qualità di maresciallo dei carabinieri, comandante della stazione di San Vito Lo Capo “ometteva di denunciare alla procura 85 reati dei quali aveva avuto notizia nell’esercizio delle sue funzioni. Ed ancora occultava atti pubblici veri ed in particolare le denunce-querele con realativi verbali di ricezione, presentate da privati presso la stessa stazione”. I verbali oggetto del rinvio a giudizio si riferiscono a “13 denunce o querele inserendo gli stessi documenti nei fascicoli relativi a soggetti che non avevano presentato la denuncia; 24 denunce o querele, inserite impropriamente all’interno della pratica “denunce di smarrimento” per celare e non consentirne l’individuazione; sopprimere o occultare 15 denunce che risultavano presentate nei verbali agli atti da un appuntato; nel sopprimere 9 denunce che risultavano presentate o rinvenute presso vari locali della stazione. Favorendo così gli autori di tali reati ad eludere le investigazioni che in tale modo non venivano avviate delegate dall’autorità giudiziaria o svolte”.

“Abbiamo dimostrato – dice l’avvocato Nino Sugamele, legale del maresciallo Salvatore Doria -che tutte le denunce delle quali la procura sosteneva l’omessa trasmissione erano state ricevute da suoi subalterni. E nessuna era stata mai portata a conoscenza del mio assistito. La tesi del complotto per la difesa è evidente” – conclude Sugamele. Tutto partì da indagini interne. Dopo la sentenza di assoluzione non è escluso che la vicenda avrà ulteriori strascichi proprio sull’omesso sequestro, sulla disobbedienza militare e falsa testimonianza.